“Usiamo i dati per costruire beni comuni”: intervista a Matteo Moretti, designer e co-fondatore di Sheldon.studio

Mapping Diversity, un progetto di OBC Transeuropa, Sheldon.studio ed EDJNet

La scorsa estate ho letto due libri: “Invisibile” dello scrittore spagnolo Eloy Moreno e “Invisibili” della scrittrice e femminista britannica Caroline Criado Perez

Matteo Moretti è un designer e co-fondatore di Sheldon.studio, uno studio di design con sede a Bolzano. Questa descrizione però suona un po’ riduttiva quando si dà un’occhiata ai lavori realizzati e alla sua carriera, iniziata nel mondo della motion graphic e della data visualisation a Erazero Milano. Poi nel 2010 Matteo inizia la carriera accademica come docente e ricercatore di visual journalism presso l’Università di Bolzano e, terminato il percorso di ricerca, fonda a inizio 2020 Sheldon.studio, il cui nome è ispirato a Sheldon Cooper, personaggio della serie tv The Big Bang Theory.

Come scrive Matteo su Linkedin, il suo lavoro consiste nell’unire il social design con i dati: per avere un’idea di cosa significa si può dare un’occhiata a Repubblica Popolare di Bolzano, pluripremiato progetto di visual journalism nato con l’intento di contrastare pregiudizi e disinformazione sulla comunità cinese di Bolzano. “Vogliamo rendere i dati, compresi i cosiddetti open data, realmente accessibili agli utenti – spiega Matteo – perché crediamo che dopo averli resi formalmente aperti, debbano essere tradotti in modo da poter essere letti dal numero più ampio possibile di persone. Il design ha la possibilità e la responsabilità di rendere comprensibili i dati”.

Sulla scia di questa visione, Sheldon.Studio insieme a OBC Transeuropa e EDJNet ha recentemente pubblicato Mapping Diversity, un progetto che mostra quante strade delle principali 21 città italiane sono intitolate a donne. Matteo, ci racconti qualcosa di più?

“Come per altri nostri lavori, l’obiettivo di Mapping Diversity è rompere la bolla. In questo caso più di una, in realtà. Come partner di EDJNet, ci è stato chiesto di cercare un modo per raccontare i dati che stavano raccogliendo, utilizzando Open Street Map e Wikipedia, per mappare i nomi dei luoghi e verificare quanti di questi erano dedicati a donne. Il nostro progetto mira a far parlare le persone – al di fuori delle bolle di chi si occupa di open data, di design o di femminismo – del fatto che nelle 21 principali città italiane solo una minoranza di strade – 1.626 su 24.572 dedicate a persone – è intitolata a personalità femminili. Abbiamo scelto di utilizzare lo scrollytelling per aiutare il pubblico a concentrarsi su contenuti specifici durante la navigazione, come ad esempio il numero delle strade intitolate alle donne della propria città”.

Questo è un esempio di ciò che sul sito dello studio chiamate “informative experience”, corretto?

“Sì. Con questo concetto intendiamo l’unione del contenuto con l’esperienza dell’utente. Le persone non solo leggono le informazioni, ma possono interagire con esse, vivendo un’esperienza più coinvolgente. Nonostante si dica che la soglia di attenzione media sia intorno ai 5 secondi, spesso passiamo ore immersi nei social network, ad esempio. In realtà, scegliamo di trascorrere il nostro tempo in questo modo, anche per effetto di strategie specifiche che catturano la nostra attenzione e ci fanno navigare per un tempo abbondantemente più lungo di quanto preventiviamo. Nello specifico, in Mapping Diversity vogliamo superare la mappatura tradizionale per mostrare l’informazione più importante prima di permettere all’utente di esplorare liberamente il contenuto”.

È un approccio interessante. Potresti spiegarci quali sono le altre caratteristiche principali che guidano il vostro lavoro?

“Certo. Oggi oltre il 90% degli utenti accede ai contenuti da mobile. Per questo di solito iniziamo a sviluppare la versione mobile, poi la arricchiamo per creare la versione desktop e altri possibili formati. Inoltre, sulla scia dell’esperienza fatta come ricercatore all’Università di Bolzano, quando abbiamo avviato l’azienda abbiamo deciso che i nostri lavori sono orientati a colmare il divario che frequentemente esiste tra accademia e impresa. Nel senso che cerchiamo di unire alcuni elementi della metodologia scientifica alla professione del design. Perciò proviamo a testare alcune forme di design e poi ne valutiamo l’impatto, per capire quali funzionano meglio in relazione a obiettivi specifici”.

Puoi farci un esempio di questa strategia?

“Quando lavoravamo al progetto Glocal Climate Change, abbiamo dato agli utenti la possibilità di condividere delle card che contenevano informazioni sui cambiamenti climatici nei loro luoghi preferiti, come la loro città natale o quella in cui vivono. Questa condivisione è un modo per portare il dibattito sull’argomento all’interno della ‘bolla’ di riferimento di queste persone. Dal nostro punto di vista, abbiamo testato questa funzione come un modo sia per diffondere informazioni e alimentare una discussione basata sui dati sul cambiamento climatico sia per promuovere il nostro lavoro. Sulla base della valutazione d’impatto fatta su questo lavoro, abbiamo riprogettato alcuni aspetti del nuovo progetto, Mapping Diversity, che valuteremo nuovamente a fine processo. In questo caso l’obiettivo finale è favorire il dibattito sulla prospettiva di genere dominante nella nostra società, ma vogliamo anche raccogliere nuove informazioni sulle città che abbiamo già mappato – è possibile che in alcuni casi i dati non siano completi -, per aggiungere nuovi dettagli riguardo ai dati che già abbiamo e anche per estendere la mappatura ad altre città grazie al coinvolgimento degli utenti a cui chiediamo di inviarci eventuali segnalazioni. In linea generale, quello che vogliamo è progettare beni comuni, più che semplici prodotti di informazione. Costa di più in termini di tempo e lavoro, ma significa costruire qualcosa destinato a durare, creando una risorsa a disposizione della nostra società”.

Una domanda comune durante i corsi di data visualisation è come migliorare la propria competenza grafica. Hai qualche consiglio a riguardo?

“Penso che il punto principale non sia solo progettare un grafico, ma prima di tutto capire quale sia la giusta rappresentazione dei dati in relazione al pubblico e ai limiti che questa porta con sé. Questi ultimi sono estremamente importanti perché non è vero che i dati non mentono. Basta pensare ai dati sul contagio da Covid-19: sicuramente ci hanno aiutato a superare l’emergenza, ma abbiamo anche dovuto porci e porre tante domande sulle modalità con cui sono stati raccolti e rappresentati per capirne veramente il senso e i limiti. Per chi desidera migliorare la propria competenza grafica-statistica ci sono alcuni buoni libri che possono aiutare a costruire un approccio corretto per leggere e visualizzare i dati: Mentire con le statistiche di Darrell Huff, Come i grafici mentono di Alberto Cairo o Data Visualisation – A Handbook for Data Driven Design di Andy Kirk. Se aggiungiamo che oggi abbiamo strumenti potenti come Flourish, è quasi difficile creare un brutto grafico. Ma è fondamentale tenere a mente che dobbiamo avere  un buon livello di competenza sull’argomento che stiamo trattando per rendere quel grafico una porta aperta per i nostri lettori. Da lì potranno iniziare a esplorare l’argomento”.

Come vedi oggi il panorama della visualizzazione dei dati in Italia?

“Da una parte abbiamo una delle più importanti scuole di design, Density Design, che forma tanti bravi designer che lavorano in Italia e all’estero. D’altra parte, la cultura del dato non è ancora così diffusa. Parlando di tendenze, penso che la visualizzazione dei dati abbia bisogno di interdisciplinarietà e in questo senso spero che il tempo delle visualizzazioni concentrate sull’estetica sia finito. Non possiamo concentrarci in modo esclusivo sul design e dimenticare di mettere in evidenza proprio quelle informazioni che necessitano della visualizzazione per essere individuati. Rendere comprensibili i dati è il nostro primo compito! Dopo un periodo fisiologicamente dedicato all’esplorazione di diverse opzioni grafiche, ora è il momento di cercare un equilibrio più efficace tra chiarezza e bellezza. Onestamente credo sarà sempre un equilibrio mutevole poiché le tecnologie e gli usi continuano a cambiare, ma il nostro compito è curare la qualità sia delle informazioni sia della visualizzazione. Allo stesso modo, penso che sia ora di abbandonare definitivamente il mito della “neutralità dei dati”. Niente è neutrale e i dati sono un modo per prendere parte a un dibattito pubblico e politico. Questo è onestamente l’obiettivo principale che ci siamo dati quando abbiamo fondato Sheldon.studio: contribuire a migliorare, almeno un po’, la nostra società attraverso i nostri progetti di design. In questo senso è importante utilizzare i dati anche per riflettere sui nostri pregiudizi, per renderli meno inconsci e rendere noi stessi più consapevoli dell’argomento di cui stiamo discutendo e dei problemi a esso collegati”.

“Usiamo i dati per costruire beni comuni”: intervista a Matteo Moretti, designer e co-fondatore di Sheldon.studio
Torna su